Servizi segreti, Gladio, Neofascisti

di Reinhard Olt

Dopo la “Notte dei Fuochi” comparvero in Sudtirolo loschi figuri che, carpendo la fiducia dei sudtirolesi, li denunciarono poi ai Carabinieri. Con queste modalità finirono in carcere e vennero pesantemente torturate anche persone totalmente estranee.

A inizio agosto del 1961 fece la sua comparsa nella Sarntal l’ex ufficiale delle SS Robert Henckelmann, indagato in Germania per l’uccisione nel 1944 di alcuni operai stranieri. Aveva trovato rifugio in Italia e usando un nome di copertura (Franco Spinelli) operava in Sudtirolo per conto dei servizi segreti italiani. Chiese a contadini della zona la disponibilità a compiere un’insurrezione e, una volta dileguatosi, i Carabinieri arrestarono ventidue persone. L’agricoltore Johann Thaler, innocente, rimase in carcere quasi tre anni e fu prosciolto solo in seconda istanza. Sia lui che i tre figli erano stati pesantemente torturati dopo l’arresto.

Un ruolo analogo fu assunto da Anton Stötter, originario di Augusta, in Germania, con alle spalle un passato da criminale e da agente nazista. Su incarico del servizio segreto italiano SIFAR raccolse a Termeno e dintorni i nomi dei patrioti sudtirolesi, per la maggioranza completamente estranei al Befreiungsausschuss Südtirol. Gli arrestati vennero pesantemente malmenati.

 

Mascheramento di un omicidio su commissione

Dall’esecuzione di attentati a carattere provocatorio fino all’omicidio, successivo livello di escalation, la distanza era minima. Christoph Franceschini rivelò che l’agente dei servizi segreti italiani Christian Kerbler, assoldato in Austria, avrebbe commesso il 7 settembre 1964 un omicidio su commissione, ai danni di Luis Amplatz, servendosi di un’arma di servizio messagli a disposizione dai Carabinieri. In seguito avrebbe simulato uno scontro a fuoco fra i Carabinieri e i “terroristi sudtirolesi” Amplatz e Georg (“Jörg”) Klotz nel quale sarebbero morti entrambi i sudtirolesi. Quel tentativo di mascheramento fallì perché Klotz, la seconda vittima predestinata, riuscì a fuggire, gravemente ferito, e rifugiarsi in Austria.

 

Una bomba sull’Espresso del Brennero

Il 15 novembre 1964 le autorità italiane furono raggiunte da una soffiata che indicava la presenza di una bomba a bordo di un vagone bagagli del treno espresso del Brennero. Il convoglio fu deviato a Bressanone su un binario morto dove il vagone sganciato poco dopo esplose. In Austria la polizia arrestò il tedesco Karl Franz Joosten, dichiaratosi sostenitore della causa sudtirolese e alloggiato presso la famiglia Felder ad Absam, la stessa che dava ospitalità al combattente per la libertà del Sudtirolo Georg Klotz. Questi sarebbe stato temporaneamente tenuto in custodia dalla polizia e Joosten ne avrebbe approfittato per riempire di esplosivo una valigia di proprietà di Klotz e corredata del suo nome per poi munirla di miccia di innesco a tempo. A Innsbruck avrebbe quindi caricato la valigia sul treno espresso del Brennero per l’Italia.

Per questo crimine Joosten fu condannato nel 1965 da un tribunale austriaco a 18 mesi di reclusione. Come i rapporti di inchiesta parlamentare dei deputati italiani Boato e Bertoldi più tardi rivelarono, Joosten aveva commesso quell’atto su ordine diretto del capo supremo della polizia in Sudtirolo, il Questore Alitto Bonanno, con lo scopo di suscitare lo sdegno e l’indignazione dell’opinione pubblica nei confronti degli attivisti del BAS. I quali avrebbero dovuto essere dipinti come assassini senza scrupoli.

 

Provocazione “esplosiva” in un stabile italiano

Sempre allo scopo di provocare lo sdegno della gente verso gli attivisti sudtirolesi, l’agente italiano Robert Kranzer di Klobenstein depose una carica senza detonatore in uno stabile italiano, rivenuta il 20 maggio 1965 dai Carabinieri alla presenza della stampa italiana. La messinscena era finalizzata a indicare come assassini i combattenti per la libertà del Sudtirolo.

 

L’episodio di Cima Vallona

Tutte queste erano però scaramucce al confronto della presunta “Strage di Cima Vallona” che freddò paurosamente i rapporti italo-austriaci. Stando alle ricostruzioni ufficiali di parte italiana, pedissequamente riprese dall’Austria, il 25 giugno 1967 avrebbero perso la vita a Cima Vallona quattro soldati italiani, vittime di trappole esplosive. A essere sospettato del crimine fu Peter Kienesberger, noto in relazione a precedenti operazioni del BAS, e il quale era stato visto la notte del 24-25 giugno 1967 nei pressi del luogo dell’attentato in compagnia del medico Dr. Erhard Hartung e del militare dell’esercito federale austriaco Egon Kufner. In un processo tenuto a Firenze contro di loro e altri, Kienesberger e Hartung furono condannati all’ergastolo e Kufner a 24 anni. Le sentenze, fondate su leggi risalenti all’epoca del fascismo, furono pronunciate in assenza degli imputati ma sono ancora oggi in vigore.

Il 18 maggio 1971 i tre vennero invece prosciolti in Austria. La procura aveva ottenuto il consenso alla ripresa ma, dopo il verdetto di assoluzione, il procedimento fu sospeso e poi archiviato nel maggio del 1975 su spinta dell’allora Ministro della Giustizia Christian Broda (SPÖ) e su intervento dell’allora Presidente della Repubblica Rudolf Kirchschläger. Il verdetto di assoluzione che lo aveva preceduto, malgrado tutti gli sforzi compiuti dalla procura per dimostrare la responsabilità degli imputati, era da ricondurre in ultima analisi all’argomentazione con cui la difesa, facendo leva su una perizia, asseriva l’impossibilità di compiere l’atto nel ristretto intervallo di tempo indicato. Avvalendosi di un diagramma di spazio-tempo i legali della difesa riuscirono a convincere i giurati a decidere a maggioranza “in dubio pro reo”.

 

Perfettamente collimante con la strategia della tensione

Dopo anni di ricerche effettuate sulla scorta di un’infinità di atti, fra documenti delle forze di sicurezza austriache, della giustizia, segreti e fino ad oggi tenuti nascosti, lo studioso Hubert Speckner ha dimostrato che la “Strage di Cima Vallona”, non poteva in nessun caso essere un attentato. E che inoltre, come altri casi oscuri tutti attribuiti al BAS, si inseriva fin troppo bene nel quadro di quella “strategia della tensione” in cui si muoveva l’intera questione sudtirolese.

Con questa strategia, gli ambienti cospiratori, organizzati in movimenti segreti di stampo neofascista, come “Ordine nuovo” o “Avanguardia Nazionale”, ma anche radicati in aree dei servizi segreti SIFAR, SID e SISMI e della rete militare segreta “Gladio”, miravano a creare nella società il terreno fertile a un passaggio dell’Italia a un regime autoritario (progetto infine fortunatamente sventato).

I servizi di sicurezza e di intelligence che operano in segreto si servono ovviamente di coperture e sotterfugi, loro strumenti del mestiere. Si muovono in zone grigie e, celandosi dietro a un presunto “interesse dello Stato”, come dichiarato dai torturatori in Sudtirolo che senza tanti giri di parole facevano sapere alle vittime di avere “carta bianca” e di poter agire a “mani libere”, sicuri di poter contare sul pieno sostegno dei vertici garantito dall’allora Ministro dell’Interno Mario Scelba, si spingono oltre ogni limite di legalità, la quale pur non mancava nell’Italia democratica di allora. Gli agenti dei servizi si prodigano a difendere false identità, a negare i veri obiettivi, a cospirare, provocare e raccontare versioni basate su una finzione dei fatti.

Era dunque inevitabile che si arrivasse a qualche attentato, o tentativo di attentato, “sotto falsa bandiera”, a interventi cioè in cui i protagonisti, nell’intento di perseguire e raggiungere determinati obiettivi, agiscono senza scrupoli e senza curarsi delle possibili perdite. Se da un lato i servizi italiani miravano, con il ricorso a attentati fittizi, a screditare i combattenti sudtirolesi e non senza il sapere e l’appoggio, persino addirittura su ordine dei responsabili politici volevano in questo modo esercitare pressioni sull’Austria, i soggetti partecipanti o a capo della rete Gladio, inserita nell’ambito delle unità segrete italiane “Stay behind”, perseguivano un ulteriore interesse, consistente nell’accrescere la tensione, così da generare un quadro di minaccia e strumentalizzare in questo modo le operazioni sudtirolesi nel quadro delle strategie sovversive. Nell’ambito della “strategia della tensione” vi furono dunque senz’altro non pochi (tentativi di) attentati “truccati”.

 

Excursus su “Gladio”

“Gladio” (dal latino gladius, “spada”) era un’organizzazione paramilitare segreta italiana di tipo “Stay behind” promossa dalla NATO, dalla CIA e dal servizio britannico MI6 durante la Guerra Fredda. Gli aderenti all’organizzazione Gladio avrebbero dovuto eseguire sabotaggi ed operazioni di guerriglia di contrasto a un’ipotetica invasione sovietica dell’Europa occidentale. L’organizzazione è esistita dal 1950 circa fino almeno al 1990 (in Europa occidentale, Grecia e Turchia).

“Gladio” era in origine solo il nome di copertura del ramo italiano di questa rete Stay-behind europea. Dopo la sua scoperta nel 1990 il termine veniva usato indistintamente per indicare l’intera rete e tutte le organizzazioni nazionali (con nomi diversi a seconda dei Paesi) gestite dai singoli servizi segreti nazionali. Dopo le rivelazioni sull’organizzazione, la NATO rifiutò ogni presa di posizione appellandosi al fatto di non dover necessariamente esprimersi in merito a “questioni militari segrete”.

Stemma di Gladio

Lo storico Daniele Ganser scrisse a proposito dei retroscena della strategia: “Le armate Stay-behind [la rete Gladio] erano ignote ai cittadini, al Parlamento e alla maggioranza dei membri del Governo e costituivano in tutta l’Europa occidentale una rete di sicurezza segreta, invisibile, coordinata. In alcuni Paesi, ma non in tutti, le reti di sicurezza si tramutarono tuttavia anche in cellule terroristiche. […] Washington, Londra e il servizio segreto militare italiano temevano che l’ingresso dei comunisti nel Governo [italiano] potesse indebolire la NATO dall’interno. Per impedirlo si manipolò il popolo: terroristi di estrema destra commettevano attentati che, falsificando le tracce, venivano però attribuiti agli oppositori politici inducendo così il popolo stesso a invocare una maggiore presenza di forze di polizia, la restrizione dei diritti di libertà e una maggiore sorveglianza da parte dei servizi di informazione.”

 

Cellule neofasciste italiane

Uno degli attentati più clamorosi della Seconda Repubblica fu commesso il 23 settembre 1963 a Ebensee. In quella località austriaca una prima bomba distrusse, poco dopo le sei del mattino, il monumento leonino in pietra presente lungo la strada che fiancheggia le rive del lago Traunsee. Poco più tardi, il conducente della funivia Feuerkogel rinvenne un altro ordigno sul tetto di una cabina occupata da scolari; fortunatamente si riuscì a disinnescarlo in tempo. Una terza carica esplosiva, posizionata su un serbatoio della salina di Ebensee, deflagrò invece al tentativo di disinnescarla, uccidendo un funzionario del comando della gendarmeria regionale di Linz e ferendo otto gendarmi, un procuratore, un giudice e la cancelliera della pretura di Gmunden. Un quarto e un quinto ordigno rimasero inesplosi. Tutte le tracce portavano in Italia. L’esplosivo comunemente in uso nella Nato era di provenienza italiana, come le sveglie usate per l’innesco a orologeria. La fabbricazione era uguale a quella di un ordigno usato il 1 ottobre 1961 per un attentato al monumento ad Andreas Hofer sul Bergisel di Innsbruck, interpretato da parte italiana come primo segnale del fatto che gli attentati non dovessero necessariamente rimanere circoscritti al Sudtirolo. Alcuni testimoni ricordavano la presenza di una Fiat targata Verona e sui luoghi degli attentati furono rinvenuti documenti dell’Associazione Studentesca di Azione Nazionale (A.S.A.N ) con una sovrastampa che minacciava “I carabinieri non si toccano”.

Come sarebbe emerso in seguito, anche il tentativo di attentato ai danni del monumento “in onore dei soldati dell’armata sovietica caduti per la liberazione dell’Austria dal fascismo”, collocato sulla piazza Schwarzenberg a Vienna recava la medesima firma italiana. Sul retro del basamento del “monumento ai Russi”, come viene comunemente chiamato, intorno a mezzogiorno del 18 agosto 1962 fu rinvenuta a quattro-cinque metri di altezza, una borsa del genere oggi nuovamente in uso, in lino blu, con le cuciture bordate in plastica bianca, con tracolla in pelle bianca e moschettoni alle estremità. Oltre ad altri alti funzionari accorse sul posto il colonnello Alois Massak, esperto di esplosivi della direzione della polizia viennese, lo stesso che più tardi avrebbe avuto un ruolo particolare nell’episodio della Strage di Cima Vallona. Esaminata quella borsa, arrivò alla conclusione che si trattasse di una “macchina infernale”. Massak riuscì a tranciare i fili che collegavano una sveglia alla miccia. L’innesco a orologeria era collegato a complessivi 5 chili di TNT. L’ordigno avrebbe dovuto esplodere verso le 17. L’indagine rivelò l’esistenza di parallelismi con la carica esplosiva trovata al monumento ad Andreas Hofer sul Bergisel un anno prima, con un innesco a orologeria di identica fattezza e con l’esplosivo rinvenuto nel Tirolo Orientale nel giugno del 1962. All’interno della borsa fu trovato un catalogo di campeggi e ostelli per la gioventù di Vienna e accanto al monumento si trovava il “marchio” evidentemente lasciato dagli autori: un pacchetto con 29 tessere in bianco di appartenenza ad A.S.A.N, organizzazione studentesca neofascista.

Quasi trent’anni dopo emerse un segnale concreto della possibilità che anche i servizi segreti italiani potessero avere avuto un ruolo negli attentati dell’Ebensee. Nell’estate del 1991 la polizia trovò infatti a Giancarlo Masiero, un militante del partito neofascista italiano “Movimento Sociale Italiano” (MSI) un memoriale, in parte scritto a mano e in parte dattiloscritto, contenente numerosi riferimenti alle attività svolte dai servizi segreti in Sudtirolo con il coinvolgimento del Movimento Sociale Italiano. Gli attentati del gennaio 1987 ai danni delle abitazioni del missino Andrea Mitolo e del presidente locale della Democrazia Cristiana erano stati compiuti dallo stesso MSI per motivi di strategia elettorale; a ordinarli sarebbe stato il capo del partito in persona, Gianfranco Fini. Alle elezioni parlamentari del giugno1987 il Movimento Sociale Italiano riuscì di fatto a più che triplicare i voti. Il consigliere provinciale esponente dei Verdi Alexander Langer aveva del resto già espresso in un’intervista al giornale “profil” (1985, n. 25) l’ipotesi di un coinvolgimento dei servizi segreti negli attentati. La Procura di Bolzano archiviò comunque le indagini contro Masiero che, negli interrogatori, aveva dichiarato di avere copiato qualcosa dai giornali e di essersi inventato svariate altre cose.

 

Il Memoriale Masiero

Ma era lecito dubitarne perché il Memoriale Masiero conteneva “un’abbondanza di fatti storicamente fondati e indizi non per forza generalmente noti”. Masiero citava ad esempio, in particolare, un certo Ufficio R del “Servizio Informazioni Forze Armate” (SIFAR) da cui si dirigevano le operazioni Gladio. Nel timore di “un’insurrezione alla maniera di Hofer”, l’ufficio aveva favorito numerosi incontri fra Andrea Mitolo e un generale d’armata. L’esistenza dell’Ufficio R fu resa pubblica solo nel 1991 sulla scia della scoperta di Gladio; Masiero aveva però scritto il suo memoriale già nell’agosto del 1990 riferendo in dettaglio sulle attività dell’Ufficio R in Sudtirolo: parlava ad esempio di un “deposito di armi nei corridoi sotterranei di Castel Sigmundskron”, trasferito altrove dopo che erano scomparsi armi ed esplosivi, e poi di un addestramento all’uso di armi ed esplosivi compiuto nelle Alpi della Sarntal dai paracadutisti, fra cui si reclutava la maggioranza dei sudtirolesi appartenenti a Gladio. I loro nomi si trovavano in una lista di 535 “gladiatori” ancora in vita presentata in un servizio della RAI andato in onda il 6 gennaio 1991e pubblicato integralmente in: “La notte dei gladiatori, omissioni e silenzi della Repubblica” (Calusca Edizioni, Padova 1991/92).

Sotto il titolo “Attività del gruppo 1961/1968 – Attentati”, il Memoriale Masiero conteneva anche l’oscura indicazione “Alloggio per intervento Austria (caso Poltronieri), impianti di risalita, esplosivo e base a Innsbruck, appartamento di noti fornitori di articoli sanitari (Conti Veneziani).” In base al nome indicato, non poteva che trattarsi dell’attentato all’Ebensee: Sergio Poltronieri era uno dei cinque attentatori. Gli “impianti di risalita” si riferivano con molta probabilità all’ordigno collocato sulla cabina della funivia Feuerkogel. Dalle indicazioni di Masiero emerge dunque obbligatoriamente che gli attentati messi a segno all’Ebensee dagli estremisti di destra e quello commesso a Innsbruck ai danni del monumento ad Andreas Hofer poterono contare sul sostegno logistico di “gladiatori” operanti in Sudtirolo, e che a tirarne segretamente le fila erano stati gli uomini dell’Ufficio R del SIFAR. Nella rivista “Öffentliche Sicherheit” (n. 1-2, 2006, p. 42) pubblicata dal Ministero federale dell’Interno (BMI), l’archivista di Stato Rudolf Jeřábek constata lapidario che “sono difficili da negare le connessioni con interessi statali e semistatali di ‘Gladio’ e del servizio segreto italiano quali mandanti di terrorismo e antiterrorismo”. Il quotidiano “Corriere della Sera” dava più tardi per certo che gli atti fossero stati personalmente ordinati dal Generale Giovanni De Lorenzo con lo scopo di trattenere l’Austria/gli austriaci dall’intervenire in Sudtirolo.

 

“Servizi segreti e il segreto di stato”

De Lorenzo era allora all’apice del potere: comandava al tempo stesso i Carabinieri e il servizio segreto militare SIFAR. Già nell’aprile del 1962 De Lorenzo aveva convocato il Colonnello Manlio Capriata, allora dirigente per un breve periodo dell’Ufficio R, comunicandogli di avere mobilitato i membri sudtirolesi di Gladio perché le misure antiterrorismo messe in atto nella zona si erano dimostrate insufficienti ed egli temeva una “algerizzazione del Sudtirolo”: “Mi disse che avrebbe attivato gli elementi l Sudtirolo facendo riferimento ai guastatori gestiti dal Centro e residenti in Sudtirolo. Furono attivati in Sudtirolo i guastatori addestrati ad Alghero.”

Che queste formazioni abbiamo spesso avuto le mani in pasta negli anni delle esplosioni in Sudtirolo è indicato anche dalle ricerche condotte da un italiano totalmente insospettabile e di grande reputazione, oltre che dai risultati di un’inchiesta parlamentare condotta a Roma. Eppure questi sforzi non portarono allora né a una ripresa del processo di Firenze, in cui il 1° dicembre 1971 gli imputati austriaci erano stati condannati in contumacia e in applicazione di leggi fasciste firmate ancora da Mussolini, né generarono in seguito cambiamenti nell’atteggiamento dell’Italia in ordine all’osservazione/valutazione storico-politica degli anni di piombo in Sudtirolo. Per Peppino Zangrando, Presidente dell’Ordine degli Avvocati bellunesi, la causa della Strage di Cima Vallona, su cui si concentrò in anni di ricerche, era tutt’altro che chiara. Stando a quanto da lui scoperto non potevano che essere stati agenti dei servizi segreti italiani e/o membri dei citati movimenti di cospirazione ad avere commesso l’attentato. Non credeva a una responsabilità del BAS, e cioè di Kienesberger, Hartung e Kufner, in quella strage. Anche la “lettera di rivendicazione” del BAS che il membro austriaco della commissione, Ing. Massak, avrebbe trovato a Cima Vallona suona come se fosse stata scritta da qualcuno senza piena padronanza della lingua tedesca, osservava Zangrando. Nel 1994 voleva riaprire il caso ma la sua istanza di ripresa del processo si scontrò con l’opposizione della Magistratura.

Fu infine il Giudice veneziano Felice Casson, che aveva fatto luce su “Gladio” e individuato 622 aderenti all’organizzazione, a rivelare nel 1990, sulla base delle ricerche condotte personalmente negli archivi del “Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare” (SISMI), l’esistenza di una “complessa struttura segreta interna allo Stato italiano” scoprendo che sia i membri del SISMI, ovvero dell’organizzazione che l’aveva preceduto il “Servizio Informazioni Difesa” (SID) nato nel 1964 dopo lo scioglimento del SIFAR, che i membri di organizzazioni neofasciste come “Avanguardia Nazionale” e “Ordine Nuovo” e parti della rete Gladio, operanti fra l’altro in formazioni come l’”Associazione Protezione Italiani” (API) e il “Movimento Italiani Alto Adige” (MIA) e delle quali faceva parte anche il noto seviziatore meranese, il Comandante dei Carabinieri Marzollo, dagli anni Sessanta fino agli anni Ottanta avevano “commesso in Italia numerosi omicidi e attentati terroristici a sfondo politico” (uomini dell’API e del MIA commisero attentati anche negli anni Settanta, per esempio contro la casa del Presidente della Provincia Silvius Magnago, contro il monumento in onore di Andreas Hofer e contro alcuni alberghi). Gli esiti delle indagini di Casson, poi pubblicate in “Servizi segreti e il segreto di stato”, avevano infine contributo a far sì che una commissione di inchiesta istituita dal Parlamento italiano si occupasse del complesso “terrorismo in Italia” e anche degli episodi legati agli anni delle bombe in Sudtirolo. Nel 1991 giunse quanto meno alla conclusione che “i servizi segreti del Paese avevano infiltrato le attività del BAS” (in: Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Terrorismo in Italia e sulle Cause della Mancata individuazione dei Responsabili delle Stragi, 1991, Doc. XXII, n. 52)

Le rivelazioni di Casson provocarono in Italia una crisi di Stato. Il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti dichiarò nell’ambito di una successiva inchiesta parlamentare che Gladio esisteva anche in molti altri Paesi europei, affermazione che fece scoppiare uno scandalo politico di portata europea. Seguirono mozioni parlamentari in diversi Paesi. In Italia, Belgio e in Svizzera furono istituite commissioni di inchiesta. La Commissione d’inchiesta su Terrorismo e Massacri (1994–2000) del Senato italiano constatò in sintesi che: “Questi massacri furono organizzati e sostenuti da persone e istituzioni dello Stato italiano e da uomini collegati al servizio segreto americano.” Al termine di un dibattito tenuto nella seduta del 22 novembre 1990 il Parlamento Europeo espresse una severa protesta contro la NATO e i servizi segreti coinvolti.

 

La StaSi nella Germania dell’Est e il Sudtirolo

Anche la Repubblica Democratica Tedesca (RDT) disponeva di truppe Stay-behind. Nella Germania dell’Est non si chiamavano ovviamente Stay-behind bensì “Partisanenaufbau” [strutture partigiane N.d.T.]. Indicate internamente come “reparto adibito a usi particolari” (“Abteilung zur besonderen Verwendung” abbr. AzbV), e dal 1955 inserite nella “Nationale Volksarmee” (NVA), erano sotto la responsabilità di Markus Wolf. Come all’Ovest, anche nella Germania dell’Est questo reparto passò a inizio/metà degli anni Sessanta dalla competenza delle forze armate alla competenza dei servizi segreti. Più tardi fu ribattezzato con il nome non meno innocuo di “Gruppi operativi del Ministro/Incarichi speciali” (“Arbeitsgruppen des Ministers/Sonderaufgaben” abbr. AGM/S) con tre basi nella provincia RDT e infine integrato, poco prima della caduta del muro nel 1989, nel Reparto XXII “Difesa al terrorismo” in fase di ascesa a reparto principale. I gruppi operativi AGM/S avevano il compito, fra l’altro, di compiere attentati dinamitardi, preferibilmente nella Repubblica Federale di Germania ma non solo lì. Il Ministero per la Sicurezza di Stato, comunemente conosciuto come StaSi e infine a capo di questi reparti, guidato da Markus Wolf spesso operante in incognito a Vienna, aveva addestrato 3500 uomini per l’impiego nelle operazioni clandestine.

Markus Wolf (1989). In: Archivio federale [1] (Immagine 183-1989-1208-420), Foto: Elke Schöps, Licenza: CC-BY-SA 3.0[2]

È ancora completamente da studiare il ruolo avuto dalla StaSi della Germania dell’Est in Sudtirolo. Nell’ambito del mio progetto di lavoro “Die Stasi und der Südtirol-Konflikt” ho avuto modo di visionare diversi atti raccolti nel cospicuo archivio berlinese del “Bundesbeauftragter für die Unterlagen des Staatssicherheitsdienstes der ehemaligen Deutschen Demokratischen Republik” abbr. BstU, l’incaricato federale per i documenti del servizio di sicurezza di Stato dell’ex Repubblica Democratica Tedesca. Sono giunto provvisoriamente alle seguenti conclusioni: il “Ministerium für Staatssicherheit” (MfS) della Repubblica Democratica Tedesca, che si definiva “spada e scudo del partito” fungendo così da organo del partito totalitario di Stato SED (“Sozialistische Einheitspartei Deutschlands”, Partito di unità socialista di Germania) e del suo antifascismo (Antifa) come dottrina di Stato, mostrava, sulla questione sudtirolese, un interesse consistente primariamente nel “dimostrare” e “far vedere” all’opinione pubblica mondiale, attraverso gli informatori acquisiti e diretti dagli ufficiali della StaSi, ossia i cosiddetti “collaboratori sociali” (“Gesellschaftliche Mitarbeiter” abbr. GM), “collaboratori inufficiali” (“Inoffizielle Mitarbeiter” abbr. IM) e agenti direttamente assunti presso il Ministero per la sicurezza di Stato, l’esistenza di un “influsso delle forze revanchiste della Germania occidentale” (si parlava spesso degli “Ultras” di Bonn, intendendo i ministri, i funzionari ministeriali, le più alte cariche della Giustizia, i politici dei partiti principali CDU, CSU, SPD, FDP) sui rapporti fra Vienna-Innsbruck-Bolzano e Roma. Vanno nella stessa direzione, per esempio, gli indizi emergenti dalle istruzioni impartite da Albert Norden, membro del Politbüro (1958-1981) e del Consiglio di Stato RDT (1976-1981) dopo la “Notte dei Fuochi” del 1961 e i processi milanesi contro gli attivisti BAS arrestati per quell’episodio e gli altri attentati del BAS. Nel Politbüro, Albert Norden, ex giornalista, copriva la funzione di agitatore e dirigeva inoltre una commissione per “l’analisi dei reati di guerra e nazisti”. Nell’ambito dei tentativi di screditamento dei politici della Germania occidentale sulla base di un “coinvolgimento nel regime nazista”, concretamente dimostrato o solo costruito, va inserito anche quello di rendere credibile una cospirazione pangermanista presumibilmente diretta da Bonn e Monaco contro Roma, così da riuscire almeno a disturbare, se non minare, il rapporto dei due membri NATO e CEE.

Elemento fondante era il costrutto di una presunta collaborazione delle vecchie e nuove forze naziste [nel gergo della RDT il termine “nazista” era equiparato a “fascista”] della Germania occidentale, dell’Austria e del (Sud)Tirolo con la zona operativa del Sudtirolo (focolaio del conflitto) e tutta l’Italia settentrionale. Il reclutamento e l’impiego di appositi uomini della StaSi, oltre che dei collaboratori GM e/o IM messi alle costole di vecchi nazisti, neonazisti e membri dei partiti di estrema destra (nella Germania occidentale, per esempio, di quelli del partito “Deutsche Reichspartei” (DRP; 1950-1965) guidato da Adolf von Thadden, poi “Nationaldemokratische Partei Deutschlands” (NPD); in Austria del “Nationaldemokratische Partei” (NDP) fondato da Norbert Burger) mirava prevalentemente a raccogliere informazioni, pianificare ed eseguire operazioni/campagne di screditamento e disinformazione (vedasi termini come Pangermanismo e simili). È quasi superfluo dire che in questo intreccio di interessi si muovevano, non di rado, agenti dalla doppia e tripla faccia.